Perché il referendum sulla cittadinanza riguarda anche i lavoratori italiani (agricoli e non solo)

Perché il referendum sulla cittadinanza riguarda anche i lavoratori italiani (agricoli e non solo)

Concedere più diritti, ad esempio dimezzando il tempo di residenza legale necessario per poter richiedere la cittadinanza, è un modo per rendere meno vulnerabili i lavoratori stranieri e conseguentemente migliorare le condizioni di tutti. Il quinto quesito referendario, insieme agli altri quattro su cui siamo chiamati ad esprimerci l’8 e 9 giugno, interessa dunque ognuna e ognuno di noi, indipendentemente da dove siamo nati, cresciuti e vissuti

Il peso dei lavoratori stranieri extracomunitari in agricoltura, in termini percentuali, è passato dal 14,7% del 2014 al 25,1% del 2023: ad oggi ci sono oltre 230 mila lavoratrici e lavoratori non comunitari impiegati nel comparto agricolo. E qual è il contesto in cui vengono impiegati?

Parliamo di un lavoro precario, dove l’89,6% dei lavoratori sono stagionali a tempo determinato; intermittente, dove le 300 mila posizioni medie settimanali di lavoro dipendente regolare sono determinate da quasi un milione di lavoratori, che si avvicendano con contratti di lavoro prevalentemente di breve durata; ed infine malpagato. Nel 2022, infatti, più di tre quarti dei dipendenti agricoli ha percepito retribuzioni lorde annuali al di sotto della soglia di povertà retributiva e metà dei dipendenti agricoli ha ricevuto retribuzioni annuali lorde inferiori a 7mila euro. Se aggiungiamo poi il dato, ormai tristemente strutturale, della presenza di oltre 200mila i lavoratori in condizione di irregolarità, che spesso significa sfruttamento e intermediazione illecita di manodopera, possiamo avere un’idea ancor più precisa di quale sia il contesto del quale ragioniamo.

Riguarda solo i lavoratori stranieri? Assolutamente no, tuttora sono migliaia i cittadini italiani e comunitari che soffrono condizioni di irregolarità che spesso sfociano in fenomeni di grave sfruttamento, e il decennale della morte di Paola Clemente, che ricorrerà a breve, sta lì a ricordarcelo. Tuttavia è però innegabile che, complice una legislazione ingiusta, discriminatoria e punitiva, i lavoratori stranieri siano ancora più vulnerabili e spesso rappresentino l’ultimo anello della catena dello sfruttamento.

La famigerata legge Bossi-Fini obbliga infatti chi riesce ad entrare nel nostro Paese, sovente attraverso la lotteria dei click day, a vivere in una condizione di precarietà giuridica, e dunque strutturalmente esposto a scivolare nell’irregolarità, nella subalternità sociale e nella sfruttabilità occupazionale. Non è un caso che l’art. 603 bis, introdotto dalla legge 199 del 2016, parli di “approfittamento dello stato di bisogno” per andare a individuare i casi di sfruttamento che hanno rilevanza penale; e chi, più di chi vive un’esistenza strutturalmente precaria, può scivolarci dentro?

Ecco perché come Osservatorio Placido Rizzotto, nel V Rapporto sullo sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle sue vittime pubblicato con il Laboratorio L’altro Diritto, con il quale vantiamo una collaborazione pluriennale nell’indagine di questi fenomeni, abbiamo parlato di “profughizzazione” dello sfruttamento. Emerge infatti che in tale contesto di fragilità i richiedenti asilo si trovino spesso in una condizione di ancor maggiore di ricattabilità occupazionale: da una parte costretti a guadagnare a ogni costo per poter mandare anche pochi spiccioli alle famiglie che sono rimaste nel Paese di origine (sovente esposte a fame, guerre e/o persecuzioni religiose e politiche); dall’altro attenti a non superare la soglia dell’assegno sociale (circa 6.900 euro nel 2024, ma gli anni scorsi la cifra era inferiore) per non essere espulsi dal sistema di accoglienza in cui si trovano.

Ecco perché i cinque quesiti sui quali siamo tutte e tutti chiamati ad esprimerci ai referendum dell’8 e 9 giugno sono di fondamentale importanza per un settore, quello agricolo, che ha nelle proprie viscere la precarietà e la povertà lavorativa. E non facciamoci trarre in inganno dall’erronea convinzione che solamente i primi quattro riguardino il mondo del lavoro o che il quesito sulla cittadinanza riguardi soltanto i lavoratori stranieri. La verità è che spesso quest’ultimi vanno ad alimentare, loro malgrado, un esercito di riserva utile a comprimere i salari e i diritti di tutto il mondo del lavoro, una sorta di zavorra che trascina in basso le condizioni di tutti e che poi paradossalmente fa ricadere la responsabilità su loro stessi, come se dietro ogni sfruttato non ci sia un padrone che lo sfrutta. Il miracolo della politica che ci indica la vittima come fosse il carnefice, sempre forte con i deboli e debole con i forti.

Ecco perché concedere più diritti, come dimezzare i tempi di residenza legale necessari per poter richiedere la cittadinanza, è un modo per rendere meno vulnerabili i lavoratori e conseguentemente migliorare le condizioni di tutti, è lo stesso ragionamento che vale per l’articolo 18 sul licenziamento illegittimo, oppure sul porre un limite ai contratti a tempo, anch’essi infatti oggetto dei quesiti referendari: se si è meno ricattabili si è anche meno disposti a cedere a condizioni di irregolarità e sfruttamento lavorativo, liberandoci finalmente dal peso della precarietà, esistenziale e lavorativa, che da più di 20 anni sta trascinando sempre più in basso le lavoratrici e i lavoratori del nostro Paese.

Per questo motivo il voto sul referendum sulla cittadinanza, assieme agli altri quattro quesiti sul lavoro, non è un voto che riguarda qualcun altro, è un voto che riguarda ognuna ed ognuno di noi, perché solo aumentando i diritti di tutti possiamo migliorare la nostra condizione individuale, indipendentemente dal luogo dove siamo nati, cresciuti e vissuti.

Matteo Bellegoni
Capo dipartimento Politiche migratorie e legalità

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