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Una rivolta necessaria per riscattare il lavoro. La memoria viva di Pio La Torre e Danilo Dolci

C’è bisogno di ricreare solidarietà tra le categorie oppresse e marginalizzate, di ricostruire una vera lotta di classe, di una vera rivolta democratica e civile, quella che passa per i cinque sì ai referendum dell’8 e 9 giugno. In questa prospettiva si articola l’impegno della Flai. Una lotta agita nel solco di chi, nel passato, ha fatto dell’impegno istituzionale per la giustizia sociale una ragione di vita e ci ha insegnato che la cultura può essere uno straordinario strumento di emancipazione sociale. Vi proponiamo di seguito l’intervento di Matteo Bellegoni al convegno “Gli immigrati, la terra, la formazione” che si è tenuto il 3 maggio a Roma

“I padroni non considerano il lavoratore un uomo, lo considerano una macchina, un automa. Ma il lavoratore non è un attrezzo qualsiasi, non si affitta, non si vende. Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone”

Giuseppe Di Vittorio

Partirei da questo assunto antico, ma ancora drammaticamente attuale, e non solo per le note vicende capitate lo scorso anno a Latina, dove la disumanizzazione e la reificazione dell’individuo hanno mostrato la propria triste apoteosi. Quel braccio nella cassetta, quel corpo scaricato come un attrezzo rotto davanti allo sguardo impotente della compagna, come fosse una di quelle carcasse di monopattino in cui ogni tanto ci si imbatte lungo alcune strade di periferia, sono solamente purtroppo la punta dell’iceberg di un sistema malato che tratta le persone come oggetti da sfruttare, trasformandoli poi in scarti quando perdono la propria utilità, oppure, come nel caso di Satnam Singh, sono ormai rotti, e pertanto da gettare via. Proprio di questo ci parlava il compianto Papa Francesco quando, con voce ahimè solitaria, denunciava la “globalizzazione dell’indifferenza” e “l’economia dello scarto”, due facce della stessa medaglia: “Questa economia uccide”, diceva nel 2013, denunciando “un modello economico che produce scarti e che favorisce quella che si può definire globalizzazione dell’indifferenza”. Quanto mancherà il coraggio e la chiarezza delle sue posizioni, sempre nette e scomode.

La domanda che vogliamo porci a questo importante convegno credo sia: cosa lega i braccianti di Di Vittorio dei primi del Novecento, ai contadini siciliani che Pio La Torre organizzava per andare ad occupare i campi incolti in Sicilia, o agli scioperi al contrario organizzati da Danilo Dolci nelle parti più povere e remote della Sicilia degli anni 50, all’impegno militante oggi della Flai nella propria attività di sindacato di strada nei campi e non solo?

Un unico filo rosso: la lotta di classe contro un modello produttivo che si fonda sullo sfruttamento sistematico dell’uomo sull’uomo e che affonda le proprie radici nello stato di bisogno che, paradossalmente, è il sistema stesso a produrre. La stessa globalizzazione dell’indifferenza che prima ti affama e poi usa la tua fame per sfruttarti, dentro un modello produttivo che per ampia parte si nutre di questi meccanismi. Dobbiamo infatti respingere con forza l’idea che lo sfruttamento sia un bubbone da estirpare da un corpo sano, esso è piuttosto il sintomo di una malattia cronica.

Ce lo aveva ben chiaro in testa Pio La Torre quando parlava della necessità di combattere le mafie colpendole nel portafoglio, perché è proprio in quel meccanismo che tentavo di descrivere poc’anzi che la criminalità organizzata affonda le proprie radici, senza il potere economico essa non avrebbe nemmeno la capacità di esercitare il potere di controllo e, al contempo, per poter soggiogare e controllare, deve poter far leva sullo “stato di bisogno”, individuale e collettivo, delle persone, dunque su una società fondata sulla povertà, sulla precarietà e sulla solitudine.

Ecco perché come Cgil sosteniamo che “il voto è la nostra rivolta”, perché i cinque quesiti promossi da noi, e per i quali si voterà l’8 e il 9 giugno, tentano proprio di scardinare quei meccanismi che producono povertà, precarietà e insicurezza imposti dal neoliberismo, lo stesso sistema che poi offre in pasto i migranti alla rabbia sociale che, avendo perso la capacità di farsi coscienza collettiva, si traduce in richiesta autoritaria di protezione. Viviamo in un sistema che vuole governare con la paura, invece che governare la paura. Ecco perché, assieme ai quattro referendum promossi dalla Cgil per cominciare quella che definirei una pacifica rivoluzione democratica contro il liberismo, è fondamentale anche il sostegno al referendum sulla cittadinanza, proprio perché abbiamo necessità di contrapporre a questo modello di società un rinnovato umanesimo militante: alla paura dobbiamo infatti contrapporre la speranza, all’egoismo la solidarietà, alla solitudine la partecipazione.

Questo modello ovviamente non riguarda soltanto il settore agricolo, ma in esso spesso assume il volto peggiore. L’arroganza, il dominio, che sovente si traducono in fenomeni di brutale sfruttamento lavorativo, con o senza intermediazione illecita di manodopera, ormai tristemente nota come caporalato, affondano le proprie radici in un sistema divenuto strutturale e parte integrante della produzione agricola del nostro Paese.

Un illuminante contributo di Davide Donatiello, Vittorio Martone e Valentina Moiso nel VII Rapporto agromafie e caporalato ci dice che: “La persistenza di una significativa quota di sfruttamento e soprattutto di intermediazione illecita rinvigorisce la necessità – già dichiarata nel VI Rapporto 2022 sulla scia dei Rapporti precedenti – di affiancare una lettura del «caporalato criminale» con una lettura di quello che potremmo definire «caporalato capitale», un modo di produzione agroindustriale che si basa su una relazione asimmetrica e di sfruttamento del lavoro prevalentemente migrante, «presupposto implicito (e) prerequisito strutturale per l’economia rurale», elemento debole e compresso al fondo delle catene del valore. Più analiticamente, l’intermediazione illecita che aggrava le condizioni di asservimento può essere letta nella triangolazione tra «mercato, Stato e criminalità», dove quest’ultima gioca un ruolo prevalentemente «di servizio»”.

Tale spunto di riflessione è confermato dal prezioso lavoro di analisi svolto dalla nostra Fondazione Metes che, analizzando i dati dell’ultimo Rapporto Annuale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, ci svela che la percentuale d’irregolarità che riguarda le aziende dell’Ateco “Agricoltura, silvicoltura e pesca”, passando dal 51,7% del 2016 al 68,4% del 2024, subisce un incremento del 16,8%.

Sempre il VII Rapporto poi ci dice che l’economia sommersa nel settore agricolo vale 27,9 miliardi di euro e rappresenta il 15,7% del totale del sommerso economico nazionale, dove è irregolare più di una unità di lavoro a tempo pieno (Ula) su tre (è il secondo settore in termini di incidenza delle unità di lavoro irregolari con un tasso appunto del 34,2%). In particolare, nel settore sono oltre 200mila i lavoratori in condizione di irregolarità, che spesso significa anche sfruttamento e caporalato.

È in tale contesto che cresce il peso dei lavoratori stranieri. Ad oggi ci sono oltre 230 mila lavoratrici e lavoratori non comunitari impiegati nel comparto agricolo. In termini percentuali il peso della loro presenza è passato dal 14,7% del 2014 al 25,1% del 2023 e provengono principalmente da India (17,4%), Marocco (15,2%) e Albania (15,2%).

Ma qual è il lavoro a cui vanno incontro? Un lavoro precario, intermittente e malpagato. Sempre nel VII Rapporto, risulta di estremo interesse il contributo di Paola Anitori, Carlo De Gregorio e Annelisa Giordano (“La povera regolarità del lavoro dipendente agricolo”), che ci descrive le condizioni economiche dei lavoratori in agricoltura. Un lavoro precario, dove l’89,6% dei lavoratori sono Otd; intermittente, ove le 300 mila posizioni medie settimanali di lavoro dipendente regolare sono infatti determinate da quasi un milione di lavoratori dipendenti, che si avvicendano con contratti di lavoro prevalentemente di breve durata; ed infine malpagato. “Nel 2022 più di tre quarti dei dipendenti agricoli ha percepito retribuzioni lorde annuali al di sotto della soglia di povertà retributiva stimata per i dipendenti delle imprese private dell’industria e dei servizi, mentre più del 45% ha avuto retribuzioni inferiori alla metà di quella stessa soglia. Metà dei dipendenti agricoli ha presentato retribuzioni annuali lorde inferiori a 7 mila euro, due volte e mezzo più basse rispetto ai dipendenti privati extra-agricoli”.

Ma tornando per un attimo ai dati del Rapporto Inl analizzati da Metes, circa la contestazione di reato ex art. 603 bis del codice penale, ovvero il reato di sfruttamento e intermediazione illecita di manodopera introdotto dalla legge 199 del 2016, i dati ci dicono che se la Puglia è la regione con la maggiore numerosità di lavoratori per cui sono state accertate violazioni delle suddette norme (116 lavoratori), il Lazio, invece, è la seconda regione per numerosità dei lavoratori con violazioni accertate (110 lavoratori pari al 21,2% del totale).
Questa analisi di contesto credo ci possa aiutare a sviluppare ancor meglio il concetto che tentavo di affermare all’inizio, ovvero che Satnam Singh è sì vittima di un padrone senza scrupoli, ma anche che quest’ultimo è parte di un sistema che dovremmo avere il coraggio di definire criminale e che per questo motivo, come per le migliaia di vittime sul lavoro, ci dovrebbe indurre a denunciare che ci troviamo dinnanzi a un omicidio di stato.

Uno stato che non solo non fa nulla per rendere effettivo l’articolo 4 della nostra Costituzione imbracciato come un’arma pacifica e democratica da Danilo Dolci nell’episodio citato all’inizio, ma che si rende complice di questo sistema, mettendo in campo un logica ingiusta, discriminatoria e punitiva attraverso quel Testo Unico sull’immigrazione, che dal 1998 ad oggi ha subito ben 60 interventi legislativi, tra cui la famigerata legge Bossi-Fini, i Decreti Sicurezza di Salvini e più recentemente i cosiddetti Decreti Cutro (che paradossalmente prendono il nome da una tragedia per vessare chi è stato vittima di quella tragedia), che obbliga chi riesce ad entrare nel nostro Paese, sovente attraverso la lotteria dei click day, a vivere in una condizione di precarietà giuridica, e dunque strutturalmente esposto a scivolare nell’irregolarità, nella subalternità sociale e nella sfruttabilità occupazionale.

Non solo, l’unico vero strumento di contrasto a questo fenomeno sociale previsto dal Pnrr, ovvero i 200 milioni stanziati per cancellare l’infamia dei ghetti in agricoltura, di cui dal 2022 ad oggi non è stato speso nemmeno un euro, nonostante la nomina a Commissario Straordinario dell’ex Prefetto di Latina Maurizio Falco, vede ancora tutti i progetti bloccati. Il rischio, ad oggi, è tra perdere colpevolmente quell’investimento, oppure fare ciò che l’ex Prefetto ha suggerito davanti alla Corte dei conti, ovvero richiedere un ulteriore proroga di 15 mesi e passare dai 36 comuni coinvolti inizialmente a 19 (rinunciando a ben 17 progetti, quasi la metà), escludendo realtà come quella di Brindisi e di San Severo, territorio quest’ultimo dove insiste il gran ghetto di Torretta Antonacci, e rinunciare a 90 milioni dei 200 iniziali, sottraendo tra l’altro queste risorse, sebbene temporaneamente, al Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami). Un vero capolavoro istituzionale.

Ecco perché, oggi più che mai, la memoria è fondamentale. La memoria viva di chi, come Pio La Torre, ha fatto del suo impegno istituzionale per la giustizia sociale una ragione di vita, arrivando anche all’estremo sacrificio, e di chi, come Danilo Dolci, ci ha insegnato che la cultura può essere uno straordinario strumento di emancipazione e riscatto sociale. C’è bisogno di ricreare solidarietà tra le categorie oppresse e marginalizzate, c’è bisogno di ricostruire una vera lotta di classe, c’è bisogno di una vera rivolta democratica e civile, quella che passa per i cinque sì ai referendum dell’8 e 9 giugno.

Matteo Bellegoni

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