Occupiamoci della pace, se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno

Andrea Coinu, capo dipartimento politiche europee e internazionali della Flai Cgil, vicepresidente Effat, interviene al congresso del sindacato europeo in corso a Valencia

Non ci sarà una discussione sui lavoratori se entreremo in guerra. Senza pace non ci sarà un movimento dei lavoratori. La discussione sul mondo del lavoro è già oggi in secondo piano rispetto all’economia, alla politica internazionale, agli scontri tra culture nord sud, est e ovest. Il lavoro, in verità è secondo anche allo sport, allo spettacolo, al divertimento spicciolo. Brutalizzato da un modello mediatico che premia e sostiene immagini di successo lontanissime da quelle del mondo reale. Dove si suda per crescere i figli. Dove si fa la coda in auto o si prende freddo in attesa dell’autobus per andare a lavoro. Oggi se per vivere devi lavorare sei sfortunato. Il successo è altro e il mondo del lavoro va in secondo piano.

Se già oggi è così immaginatevi in una guerra. Chi parlerà dei lavoratori? Quale sarà il nostro ruolo?

Il nostro ruolo – lo vediamo dalle stime delle vittime del conflitto russo-ucraino – è quello di andare al macello. È quello di andare a morire per interessi che non sono e non saranno mai delle lavoratrici e dei lavoratori.

È per questo che è indispensabile rilanciare il movimento pacifista internazionale. È urgente farlo prima che Trump ci spinga al riarmamento pesante, prima che le industrie belliche si impossessino di una percentuale troppo alta della nostra economia tanto da non poter essere dismesse.

È urgente. E ne abbiano pace gli imbecilli che tacciano il movimento pacifista come sostenitore di Putin. Difendiamo la pace dagli imbecilli che pensano che non volere la guerra voglia dire giustificare l’invasione russa. Difendiamo la pace da chi pensa che giocare sull’etimologia della parola genocidio sia qualcosa di accettabile. Abbiate la decenza di non spiegare a chi vuole la pace cos’è un genocidio e vergognatevi a non lottare con noi se già avete il dubbio che ci sia un genocidio in atto.

Occupiamoci della pace, se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno.

Questa preoccupazione va anche nei confronti del nuovo mantra ideologico presentato in Commissione europea da Draghi. Lo diciamo con estrema convinzione. Non sarà la produttività a salvare l’Europa. Non sarà l’ennesima ricetta a base di austerity e sacrifici dei lavoratori. Ed è paradossale che un documento prodotto su commissione specifica da parte della Von der Leyen passi senza una discussione forte e ferma da parte di tutti.

Lo hanno capito prima di noi i proprietari terrieri. Il movimento dei trattori altro non era che un anticipo di critica al prossimo modello. Loro che sui soldi pubblici fondano il proprio benessere, hanno capito che nella prossima Europa non c’è spazio per tutti quei soldi pubblici sull’agricoltura. Per questo sono scesi in piazza e si sono permessi azioni che nessun gruppo di lavoratori avrebbe potuto permettersi.

Perché quel documento non è solo un nuovo mantra ideologico ma è soprattutto un documento di politica industriale a lungo periodo. Ed è a questo che il sindacato internazionale deve stare più attento. La crisi della meccanica produttiva europea che è alla base della crisi economica con cui stiamo già iniziando tutti a prendere confidenza, nasce dalla scarsissima propensione di tutti gli attori economici sociali negli ultimi anni a parlare di politica industriale. Il sindacato ha sbagliato a non essere chiaro se non chiarissimo su un nuovo modello produttivo che oltre ad essere più sostenibile doveva guardare con più convinzione ai nuovi modelli industriali e tecnologici asiatici e americani. Invece siamo stati indietro, convinti che tutelare fino all’ultimo minuto qualcosa che ci ha fatto diventare i più ricchi del pianeta ci garantisse un diritto ad esserlo per sempre.  

Questo perché noi per primi ci siamo convinti che davvero il mercato e gli interessi privati avrebbero regolato le cose. Invece no. Non dimentichiamocene mai. Il mercato regola solo le diseguaglianze tra chi lavora per vivere e chi quel lavoro lo sfrutta o meglio lo usa a proprio vantaggio.

L’ideologia liberale aveva senso e poteva essere apprezzabile in una fase di forte presenza della politica nella vita delle persone. Ma oggi ha senso? Lo vediamo dai dati delle affluenze alle elezioni nazionali ed europee di tutto il continente. In vent’anni la piramide di partecipazione al voto si è invertita. Oggi negli Usa si vota più che in Europa. Questo succede perché l’impressione che votando non si risolva nulla è diventata una realtà. Questa per noi deve diventare una priorità. Cercare in tutti modi la costruzione di un Europa politica, con un parlamento politico legittimato nel proprio ruolo legislatore e non vittima e ostaggio di interessi nazionali che, appunto, portano solo a nazionalismi spiccioli e sfiancano la democrazia. Questo modello sta uccidendo la democrazia e noi dobbiamo intervenire. Lo vediamo quotidianamente nella ricerca della partecipazione attiva dei lavoratori ai nostri lavori. Siamo i primi che hanno difficoltà ad esprimere la relazione tra partecipazione attiva e reale cambiamento delle condizioni di vita. L’unica alternativa è garantire una partecipazione attiva e reale ai processi decisionali. 

Per questo iniziamo a parlare di modelli industriali e agricoli senza timore di essere accusati di fare politica, senza paura che le imprese ci accusino di intrometterci perché la politica industriale e agricola che avremo nei prossimi anni segneranno la vita e il futuro del sindacato e dei lavoratori. Dobbiamo iniziare a parlare della nostra democrazia senza paura di essere accusati di fare politica di come si può agirla nei Cae, nei luoghi di lavoro, nelle nostre riunioni. Dobbiamo parlare e affrontare i temi della guerra, o meglio della pace, e cercare unitarietà. Ricordarci che non esistono bombe di un colore buono e bombe di un colore brutto ma solo bombe di colore di morte.

Cerchiamo unità nelle nostre differenze. Discutiamo ma uniamoci in una sfida collettiva che ci porti a migliorare l’oggi del lavoro ma che costruisca anche una prospettiva ancora migliore.

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