Nella sede della Fondazione Metes, il convegno sulla transizione ambientale e sociale del sistema agroalimentare, promosso dalla Alleanza Clima Lavoro. Presenti insieme alla Flai numerose associazioni ambientaliste
Come tenere insieme la transizione ambientale di agricoltura e industria alimentare con le esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori che tengono in piedi ogni giorno quei comparti? È questa la domanda a cui si è tentato di rispondere oggi nella sede della Fondazione Metes, a Roma, durante un incontro promosso dall’Alleanza Clima Lavoro. Un tavolo permanente di confronto e proposta nato negli anni scorsi, a cui partecipano organizzazioni sindacali e della società civile. Tra i promotori: le tre categorie Flai, Fiom e Filt, e poi Sbilanciamoci!, Cgil Piemonte, Kyoto Club, Transport&Environment Italia, Motus-E, Legambiente, Wwf Italia, Greenpeace.
«Perseguire una svolta ambientalista e partecipare all’Alleanza Clima Lavoro è stata una decisione che abbiamo preso durante l’ultimo congresso e ci ha impegnato in una riflessione seria», apre le danze il segretario generale della Flai Giovanni Mininni. «Una scelta – prosegue – presa in sintonia con tutta la Cgil. Ne abbiamo tratto grandi benefici, tra cui la possibilità di allargare il perimetro delle nostre alleanze nella lotta per una agricoltura giusta, che non veda più lo sfruttamento nei nostri campi. Pensiamo ad esempio alle attività di sindacato di strada e alla partecipazione di attivisti e attiviste di associazioni e ong alle nostre Brigate del lavoro».
Una “svolta” ambientalista, quella della Flai, che non si è tradotta solo in annunci e promesse, ma pure in azioni concrete. «In sei-sette gruppi industriali abbiamo portato avanti una contrattazione di secondo livello sul tema della sostenibilità ambientale, per esempio sul consumo di acqua, sull’uso di fonti energetiche alternative al fossile, eccetera – aggiunge Mininni -. Perché un sindacato non può solo enunciare principi ma deve anche portare a casa risultati».
«Come Alleanza Clima Lavoro – dice Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci! che ha introdotto insieme a Mininni il pomeriggio di lavori – abbiamo iniziato col tema dell’automotive. Ora ci stiamo allargando ai temi dell’agroecologia e a quello del trasporto pubblico locale sostenibile. È un’Alleanza imprescindibile, di cui hanno bisogno sia le organizzazioni ambientaliste, sia il sindacato e il mondo del lavoro, per andare nella direzione di un modello diverso da quello attuale. Purtroppo, qualcuno pensa invece si debba andare verso un’economia di guerra, a discapito di una transizione ecologica sostenibile. Ci servono trattori e non cingolati da guerra»
Nella prima sessione, moderata da Cecilia Begal di Sbilanciamoci!, “Il lavoro e il sistema agroalimentare oggi”, si tenta di delineare lo stato dell’arte. A che punto siamo, innanzitutto, col Green deal europeo? «Su questo fronte stiamo ricevendo messaggi contraddittori», dice Silvano Falocco, direttore della Fondazione Ecosistemi, collegato alla sala da remoto. «Se leggiamo i giornali – prosegue – sembra che quel progetto sia fallito. Il green deal aveva come idea di partenza l’orientare gli operatori economici privati verso attività a minor rischio, ambientale, fisico o di transizione, attraverso una serie di provvedimenti, da quelli sulla finanza sostenibile e sulla tassonomia ambientale, ad altri su due diligence, greenwashing, ripristino della natura. Molte di queste misure sono ancora efficaci, anche se si tende ora ad andare in un’altra direzione. Nel bivio tra liberismo e protezionismo, noi siamo favorevoli a percorrere un’altra strada, quella della difesa di standard europei sociali e ambientali».
Un punto di vista relativamente ottimista, quello di Falocco, che cerca di cogliere gli elementi positivi delle attuali politiche europee sull’agroalimentare. Fabio Ciconte, Presidente della associazione Terra!, lo completa guardando all’altro lato della medaglia: «Nella Vision Ue per l’agricoltura e il cibo, il documento presentato dalla Commissione europea in cui viene presentata una “tabella di marcia”, la parola “green deal” è sparita». E questo accade, spiega ancora Ciconte, in uno scenario in cui la distribuzione del valore nella filiera agroalimentare continua a presentare squilibri e ingiustizie.
«I dati Ismea ci dicono che la pasta costa mediamente al consumatore 1,73 al chilo – spiega il presidente di Terra! -. Per poter stare sul mercato, la parte agricola dovrebbe vendere il prodotto a 62 centesimi; invece, vende in media a 50 centesimi, in perdita. Questi 12 cent che l’agricoltore sta perdendo, come li recupera l’agricoltore? Se non li recupera, che succede? Può recuperarli dai fondi della Politica agricola comune (la Pac, ndr), ma non tutti gli agricoltori accedono a questi finanziamenti, ad esempio quelli più piccoli, che sono la maggioranza in Italia. Perciò, da un lato molte aziende chiudono, dall’altro questi sono gli “ingredienti” che alimentano lo sfruttamento del lavoro».
Caporalato e lavoro nero producono cibo “insostenibile”, mentre moltissime persone nel mondo hanno il problema di accedere a cibo sano e di qualità, se non proprio di accedere al cibo. «La sostenibilità del cibo deve accompagnarsi alla sua accessibilità – prosegue nel ragionamento Ciconte – noi cerchiamo di ragionare su questo tema, sul fronte delle food policy, ad esempio all’interno del Consiglio del cibo di Roma che presiedo. E poi Terra! si sta interrogando su come si possa creare un contenitore di soggetti più largo, che metta insieme chi lotta al nostro fianco su questo argomento».
Silvia Guaraldi, segretaria nazionale della Flai, parte dai dati concreti elaborati dal sindacato insieme alla Fondazione Metes alcuni giorni fa, relativi al lavoro in agricoltura. «Avevamo assistito negli scorsi anni – riepiloga Guaraldi – ad un calo del numero dei lavoratori in agricoltura e ad un parallelo aumento del numero medio delle giornate lavorate, fenomeni che in un settore segnato dalla stagionalità facevano ipotizzare una stabilizzazione del lavoro. Dalle cifre Inps relative al 2024, che abbiamo analizzato, si notano trend che vanno nella direzione opposta. A queste evidenze, su cui ci stiamo interrogando, si somma la persistenza del fenomeno del caporalato, diffuso il tutto il Paese, dal Nord al mezzogiorno».
Se «è vero che c’è un problema di redditività delle imprese agricole più piccole – dice ancora Guaraldi – penalizzate dalla Pac, questo però non può essere una giustificazione per le aziende ad operare fuori dalle regole. Peraltro, sfruttamento delle persone e sfruttamento della terra spesso vanno a braccetto, dunque tutelare la salute del lavoratore significa garantire filiere sane e giuste che tutelano anche la salute del cittadino».
La seconda sessione del pomeriggio prende in esame più in dettaglio il documento sulla Visione Ue, presentato dalla Commissione europea a febbraio.
«Nel documento europeo, non si parla né del Green deal, né si fa cenno alla condizionalità sociale della Politica agricola comune. Ma ci son anche elementi che si possono leggere diversamente. La non centralità della Pac nella Vision ritengo sia un segnale positivo, le politiche dell’agricoltura devono essere inquadrate nell’ambito di politiche più generali che riguardano l’Europa», commenta Massimiliano D’Alessio, ricercatore della Fondazione Metes.
Quando si parla di Pac inoltre, «si continua a parlare di semplificazione, il problema è che viene vista sempre come riduzione degli obblighi per tutelare l’ambiente», aggiunge Dante Caserta del Wwf. Il giudizio di Federica Ferrario, responsabile Campagne di Terra, è netto: «Stiamo parlando di un documento non all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte. Sicuramente ha subito la strumentalizzazione delle proteste dei trattori dell’ultimo anno. L’elemento della competitività più volte sottolineato definisce una prospettiva che va a vantaggio dei soliti noti, dei grandi che già ricevono i fondi Pac a discapito dei piccoli». Una dinamica ribadita da Simona Savino di Greenpeace. «L’80% della Pac – sottolinea – va al 20% delle aziende, quelle più grandi e inquinanti. Si va nella direzione del grande latifondo. Questo ha delle conseguenze. La Pac, anziché migliorare il modello agricolo, ha finito col puntellare lo status quo, non senza conseguenze, perché nel frattempo le risorse naturali vengono depauperate».
La Vision Ue su agricoltura e cibo, peraltro, «ignora anche i dati scientifici che abbiamo a disposizione – denuncia Federica Luoni della Lipu -. La riduzione della presenza di uccelli nelle campagne italiane dal 2000 ad oggi è del 36%, nella Pianura padana si arriva al 50%. Nel testo non si tiene conto di questi cambiamenti, di come stanno cambiando gli ecosistemi, e non si tiene conto di una idea di “salute comune”». Una punta di ottimismo, verso la chiusura, traspare da Angelo Gentili di Legambiente: «Nonostante tutto, possiamo dire “menomale che c’è stata l’Europa”. L’Ue, su una serie di legislazioni dedicate a energia, rifiuti e anche agricoltura, che ci ha dato finora indirizzi chiari. Purtroppo per molti aspetti adesso si sta tornando indietro, seguendo logiche legate alla competitività anziché alla qualità». Una scelta che rischia di spaccare sempre di più l’Italia in due. «Siamo di fronte ad una divisione netta, tra le pianure, antropizzate, dove c’è produzione agroalimentare intensiva, aria, acqua e terra sono inquinate, vere e proprie bombe ecologiche, e poi le aree interne desertificate, non più manutenute, spopolate, a rischio dissesto idrogeologico. Dobbiamo risolvere questa polarizzazione».
«Non abbiamo molto tempo a disposizione per proseguire nella transizione ambientale socialmente sostenibile del nostro comparto», commenta Tina Balì, segretaria nazionale della Flai, nelle conclusioni. Quello di oggi è un passo in questa direzione.