Suvignano, quando un terreno confiscato alla mafia diventa bene comune

La tenuta di Suvignano, a Monteroni D’Arbia, in provincia di Siena, con i suoi quasi 700 ettari di terreni, è il più grande bene confiscato alla criminalità organizzata nel centro-nord del paese. La tenuta ha una colonica di pregio, altri 17 edifici e nel complesso 21mila metri quadri fra immobili e magazzini, anche una chiesetta a fianco dell’edificio principale. Ci sono voluti bel 12 anni, a partire dal 2007 per completare le procedure di assegnazione alla Regione Toscana, che adesso la gestisce attraverso l’Ente Terre insieme ai Comuni di Murlo e di Monteroni d’Arbia che fa sperimentazione in campo agricolo e forestale e valorizza le risorse autoctone, bestiame compreso. Campi di grano ed erba per il foraggio, qualche ulivo e un centinaio di ettari di bosco tolti alla mafia e restituiti alla collettività. Fu addirittura Giovanni Flacone a sequestrarla per la prima volta, nell’ormai lontano 1983, oggi ci pascolano pecore sarde, vengono allevati oltre al bestiame maiali di cinta senese, e portati a suo tempo dalla Sicilia anche cavalli e ciuchi di Ragusa. Un piccolo paradiso nelle colline senesi, nel cuore della Toscana, con la via Francigena a un passo. La cornice ideale per coltivare legalità e giustizia sociale, per un’altra ‘estate in campo’. Un progetto che coinvolge ogni anno centinaia di giovani volontari provenienti da tutta Italia per restituire i beni confiscati alla comunità, renderli vivi, animarli con iniziative culturali, formative e informative sulla difesa della democrazia, della legalità, del diritto al lavoro. Anche nel 2023 Arci Toscana è impegnata per la legalità e lo fa in particolare attraverso il progetto “Suvignano #Benecomune”. Ragazze e ragazzi del IV anno del liceo scientifico Castelnuovo di Firenze ascoltano con interesse una lezione sui temi dello sfruttamento e del caporalato. Seduti a semicerchio con il presidente toscano dell’Arci Simone Ferretti, la segretaria regionale della Cgil Gessica Beneforti, quello generale della Flai toscana Mirko Borselli, Roberto Giubbolini e Antonio Mazzeschi della Flai di Siena, Matteo Bellegoni, Flai nazionale e Osservatorio Placido Rizzotto, scoprono qualcosa in più sul mondo che li circonda. Gli studenti seguono con particolare attenzione storie tragiche come quella di Paola Clemente, morta di stenti mentre raccoglieva la frutta con 40 gradi all’ombra. Imparano che il cibo, per essere buono, deve arrivare anche da un lavoro non sfruttato. Fremono di sdegno quando Bellegoni racconta loro quanto sia diffuso il caporalato, dal nord al sud della penisola, e quali siano i profitti illeciti che derivano da una forma di sfruttamento antica come l’uomo. Sono stati chiamati caporali perché già a fine ottocento i braccianti agricoli venivano vessati come i graduati militari vessavano la truppa. Due ore di lezione, non è volata una mosca. E alla fine sono applausi.    

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