L’attrazione fatale delle mafie per le filiere agro-alimentari

Jean-René Bilongo

Il fiuto della malavita per i filoni redditizi nei quali insediarsi, insidiandone la tenuta, ha da tempo individuato nelle filiere agroalimentari un terreno fertile per i propri interessi. In primo luogo conseguire guadagni e riciclarli, per poi investirli e guadagnare ulteriormente. La presenza della criminalità organizzata nel settore primario è antica quanto il lavoro nei campi, una mafia delle campagne che continua a presidiare l’economia rurale e che, ad esempio, ha individuato nei pascoli una nuova miniera. Non per caso è stato coniato il termine “agromafia”, che definisce il complesso delle attività criminali nella filiera agro-alimentare, in tutti i suoi aspetti, dalla produzione alla  trasformazione fino alla commercializzazione dei prodotti. Prima dell’emergenza sanitaria, si stima che il volume d’affari delle agromafie si aggirasse su 24 miliardi, “un business più che redditizio che consiste anche nell’imposizione di prezzi, condizioni di vendita dei prodotti, controllo delle filiere di raccolta e conservazione, monopolio dei trasporti su gomma, stoccaggio delle merci”. Le mafie si sono insediate anche nelle macellazioni clandestine, nel furto di bestiame, nel saccheggio del patrimonio boschivo, nonché in truffe a danno dell’Unione Europea per aggiudicarsi finanziamenti sottratti così all’agricoltura legale. La vicenda di Giuseppe Antoci, Presidente del Parco dei Nebrodi, è esemplificativa. Sui Nebrodi nel messinese, e non solo, era stato architettato un ingegnoso sistema di truffe all’Unione Europea, basato sull’affitto a cifre simboliche di terreni, con l’unico scopo di intascare gli aiuti comunitari. Secondo le stime della Guardia di Finanza, che ha fatto quasi 13 mila controlli tra il 2014 e il 2016, le risorse della PAC, Politica Agricola Comune, incassate in maniera fraudolenta hanno ammontato a 735,6 milioni sui quasi 1,2 miliardi stanziati complessivamente, più del 60%. È la cosiddetta ‘mafia dei pascoli’, segnalata anche da una Commissione parlamentare d’inchiesta. Per arginare il fenomeno, è stato messo a punto un meccanismo di difesa, con relativo protocollo, che ha esteso l’obbligo di certificazione antimafia anche ai contratti d’affitto sui terreni agricoli, qualunque sia la dimensione dell’appezzamento. Un approccio efficace, che è stato adottato successivamente dal nuovo Codice antimafia. Giuseppe Antoci è stato bersaglio di un agguato per fortuna sventato dalla scorta. L’agroalimentare è un settore economico particolarmente importante, un asset strategico del Pil italiano. Il Made in Italy è ambìto in tutto il mondo. Da qui l’interesse della criminalità organizzata, che lucra anche con la contraffazione alimentare, il cosiddetto “Italian sounding” cioè prodotti spacciati per autentici ma che sono, in realtà, mere imitazioni della tradizione, del gusto e della cultura italiana, per ingannare il consumatore. Si stima che il falso Made in Italy pesi 100 miliardi annui, con effetti deleteri anche sull’occupazione, si parla di 150 mila posti di lavoro persi ogni anno.

La brama mafiosa nel settore agroalimentare si palesa anche nei grandi Mercati Ortofrutticoli. Un interesse tossico che si fonda su un sistema ampio di relazioni che connettono le mafie con esponenti delle libere professioni e dell’economia, generando un mix che consente la penetrazione in un settore strategico e di condizionare i processi di ristrutturazione e riorganizzazione della filiera agricola. Una rete che si incrocia con la filiera del cibo, dalla sua produzione al trasporto, dalla distribuzione, trasformazione e vendita, e palesa la trasformazione metodologica e simbolica della criminalità. Le mafie si presentano sempre più in giacca e cravatta, e riescono a raccogliere i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza. 

Il paradigma di questo approccio sono i mercati ortofrutticoli: costituiscono gli anelli vertebrali del sistema agricolo nazionale ed internazionale. Scrutando le vicende che si sono verificate nel Mercato Ortofrutticolo di Milano (gestito dal Comune attraverso la Sogemi), è eloquente l’ordinanza di custodia cautelare promulgata nel 2007 nei confronti di Salvatore Morabito (cosca Morabito di Africo, nella Locride) e altre 23 persone per condizionamento mafioso del Mercato milanese. Nel 2017, lo stesso ortomercato meneghino è stato interessato da un’importante indagine (operazione “Provvidenza”) della Dda di Reggio Calabria per il coinvolgimento della cosca dei Piromalli, il cui boss risultava socio occulto per le forniture di prodotti agroalimentari come le arance clementine di provenienza calabrese collocate sul mercato nazionale ed europeo.

Stesse dinamiche si sono verificate nell’Ortomercato di Fondi (Latina) con altre cosche. Una presenza invasiva e soffocante della camorra e della ‘ndrangheta, entrambe interessate al comparto agroalimentare nazionale. A suonare il campanello di allarme è stato il generale Antonio Girone, ex direttore della Dia (2008-2011): “i Casalesi avevano imposto la loro presenza su questo mercato che è un vero polo strategico della distribuzione”. Questo è stato possibile grazie alla costruzione di un cartello mafia- ’ndrangheta- camorra, che consentiva di imporre “il pizzo su ogni merce” e di condizionare i prezzi.

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