Aimaretti, la fabbrica fordista del maiale

Frida Nacinovich

Una terra di vini eccellenti come il Piemonte non può non avere una cucina all’altezza delle migliori tradizioni della penisola, fatta di piatti per tutti i gusti e con una antica predilezione per la carne. Un popolo di cacciatori del resto, tradizione che si accompagna a una filiera alimentare altrettanto consolidata e di qualità. Lo dimostrano, ad esempio, gli 80 anni di vita di una delle principali realtà italiane del settore, avviata negli anni ’40 del secolo scorso dal giovane macellatore Giuseppe Aimaretti a Villafranca Piemonte, ai piedi del Monviso.

Ne ha fatta di strada l’azienda di carni suine che in parallelo metteva in vendita insaccati di ottima qualità e prosciutti di rara bontà, prodotti che fin dal primo assaggio hanno conquistato generazioni di buongustai dal palato fine. Il risultato di una filiera che partiva dall’allevamento, anche se oggi l’attività di Aimaretti è improntata quasi esclusivamente alla macellazione e alla stagionatura dei prosciutti crudi marchiati San Daniele e Parma.

I numeri dicono molto: uno stabilimento di 7.000 metri quadri, un impianto capace di “trattare” 400mila capi all’anno, e una divisione del lavoro meticolosa, con due giorni e mezzo dedicati alla macellazione e il tempo restante alla puntatura, al disosso, alla preparazione dei prosciutti crudi, e alla trasformazione della materia prima in semilavorati. Quest’ultima produzione viene poi venduta direttamente alle aziende che chiudono il cerchio del prodotto finito – gli insaccati di ogni tipo – e pronto per essere commercializzato. Le cosce invece vengono ‘rifilate’ e inviate agli stabilimenti di stagionatura, in aziende dello stesso gruppo sia a San Daniele del Friuli che a Parma, per diventare alla fine il prosciutto di Parma dop Aimaretti, e il prosciutto San Daniele dop SanDan.

Tutto bene dunque? Non proprio, racconta Fabio Coriandoli, 46 anni di cui più della metà passati nello stabilimento, dove oggi è rappresentante sindacale aziendale per la Flai Cgil: “Lavoro in Aimaretti da quando avevo vent’anni, e in questo quarto di secolo il mondo del lavoro è profondamente cambiato, anzi è stato letteralmente stravolto. Ma nel nostro caso l’evoluzione tecnologica non c’entra. Stiamo parlando di un mestiere soprattutto manuale, usiamo tanto il coltello. Certo, abbiamo anche le seghe elettriche, ma resta un lavoro soprattutto manuale. E faticosissimo, a tal punto che a livello fisico siamo perlopiù davvero ‘disastrati’”.

Un impegno pesantissimo, accentuato da una organizzazione del lavoro che sembra pensata apposta per sfinire le operaie e gli operai: “In Aimaretti facciamo orari disumani – certifica Coriandoli – non sono sempre otto ore al giorno. Il lunedì e il mercoledì, i giorni più lunghi, ne facciamo nove e mezza, che possono diventare dieci sotto le feste, mentre il martedì e giovedì otto ore, e cinque al venerdì. Quaranta ore distribuite malissimo, è un orario che non ci è mai piaciuto e che continuiamo a contestare, perché ci massacra letteralmente. Il lunedì dopo nove ore e mezza esci distrutto, io già sto male quando arriva il martedì sera perché penso al mercoledì. Protestiamo, ma ci dicono che l’orario è questo da una vita, che forse un domani riusciremo a fare otto ore tutti i giorni, intanto è una storia che va avanti da anni e anni. Al datore di lavoro, come sempre, dell’operaio gli importa poco o nulla”.

Per giunta anche Aimaretti ha iniziato a seguire la strada, quanto mai scivolosa, della precarizzazione della forza lavoro: “Come dipendenti diretti siamo sempre meno – spiega ancora Coriandoli – perché ormai l’azienda punta sulle cooperative e sui somministrati, seguendo una politica non diversa da quella di quasi tutti gli imprenditori. Nel complesso siamo sempre 120 addetti circa, ma solo 70-80 dipendenti diretti. Mentre gli altri 40 vengono pagati molto meno di noi, addirittura la metà, quando a conti fatti fanno il nostro stesso lavoro”. 

Un’ora di sciopero in Aimaretti. “Avevamo chiesto un aumento dell’indennità freddo bagnato. Lavoriamo fra viscere, sangue, siamo esposti a sbalzi di temperature, umidità. La risposta è stata picche”. Le donne sono pochissime, la fatica del lavoro si fa sentire. “Io ho avuto un’ernia inguinale, una al disco – racconta ancora Coriandoli – i miei colleghi hanno lesioni ai legamenti delle spalle, della cuffia, ernie lombali. Tutti passano sotto i ferri prima o poi. Il nostro è un lavoro usurante, incredibile che non lo riconoscano come tale”.

Forte della sua esperienza Coriandoli è un ‘jolly’. “Dove serve vado, anche per insegnare il mestiere ai nuovi arrivati. Gli stranieri sono tantissimi, arrivano da Ghana, Camerun, Mali, Senegal, ci sono ragazzi rumeni, indiani, un cinese. Hanno difficoltà linguistiche, una terribile paura di perdere il posto di lavoro”. In Aimaretti non c’erano mai stati i sindacati, Coriandoli è stato il primo. “Ricordo le lotte, i litigi, gli scagnozzi che provocavano per farci arrivare alle mani”. Lui non si è mai arreso, e pur a distanza ha sostenuto la lotta dei macellatori di Baldichieri D’Asti. Anche i macellatori devono avere diritti e tutele adeguati, come da contratto.